Stevia, alle origini del 7° grado
Di Ferruccio Ferraresi
Oggi può far sorridere le nuove generazioni sentir parlare di gradi come il 6a+ o 6b, i climber di oggi, nati e cresciuti sulle prese di resina sono abituati sulle falesie a ben altri gradi.
Eppure per arrivare sulle difficoltà attuali occorre fare un tuffo nel passato, perché i risultati odierni sono figli di un epoca remota ma rivoluzionaria.
Mi sto riferendo agli anni 30 quando sulle dolomiti imperversavano scalatori come: Carlesso, Cassin , Comici , Solledeler o Detassis.
Tanto per citare la grinta e il talento di questi alpinisti si potrebbe citare la nord dell’Ailefroide scalata da Giusto Gervasutti non a caso detto il Fortissimo, con due costole rotte, oppure la est delle Grandes Jorasses .
I risultati ottenuti erano figli di una vita dura e priva di comodità, Carlesso dopo ore e ore di lavoro trazionava sugli stipiti delle porte, Cassin faceva il fabbro, Hermann Buhl scalava la parete nordest del Pizzo Badile, in quattro ore partendo da Innsbruck in bicicletta.
Rispetto agli alpinisti delle alpi occidentali erano avanti di un paio di generazioni, anche se la quota, la severità dell’ambiente la poliedricità del tipo di prestazione (ghiaccio, roccia, misto) potrebbe essere una delle cause di questo divario.
Occorrerà aspettare Walter Bonatti, che nel 1951 assieme a Luciano Ghigo porterà la concezione dolomitica sul massiccio del Monte Bianco, scalando la parete est del Grand Capucin.
Come dice giustamente Alessandro Gogna i risultati vanno paragonati al momento storico in cui sono stati realizzati. Non avrebbe senso paragonare le performance di Cassin sulla nord delle Grandes Jorasses con le veloci ripetizioni di un Cristophe Profit, ogni epoca ha infatti il suo campione.
Occorre tener presente che negli anni trenta si scalava con pedule di feltro, costringendo l’arrampicatore a tenere il baricentro (il sedere) tutto in fuori per permettere la tenuta delle scarpe sugli appoggi, tutto ciò con un dispendio di energia notevole.
L’attrezzatura era pesante e obsoleta, dai chiodi, ai moschettoni o al martello, il metodo di assicurazione a spalla a dir poco barbaro con corde di canapa che non davano garanzie di tenuta.
Ecco forse perché, è nato il mito del primo di cordata, all’epoca tanto per intenderci non ci si poteva concedere il lusso di cadere, i chiodi scarsi e la verticalità assoluta davano e danno ancora oggi un senso di rispetto e timore.
Giovan Battista Vinatzer nato nel 1912 in Val Gardena a Ortisei, dotato di talento e capacità eccezionali, lasciò il mestiere di intagliatore per praticare la professione di guida alpina e maestro di sci.
La sua povertà era tale che scalava frequentemente senza scarpe, ciò a dimostrare un equilibrio e una tecnica fuori del comune, la sua attività la svolse prevalentemente sull emontagne di casa e questa, forse e’ una delle cause per cui rimase per molto tempo un eroe sconosciuto al grande pubblico.
Inoltre essendo Ladino non erano riconosciute le sue capacità in quanto non appartenente a nazionalità italiana o tedesca e quindi ritenuto estraneo alla competizione.
Occorre aggiungere che non diede mai importanza e non fece pubblicità alle sue salite, solo quando i suoi itinerari vennero ripetuti si capì il vero valore di quello che è considerato come uno dei più forti arrampicatori, se non il più forte degli anni trenta .
Basta citare la parete nord della Furchetta che venne salita da Solledeler e che evita il muro terminale giallo e friabile.
Vinatzer e Peristi invece di traversare, superarono direttamente la parete trovando difficoltà allucinanti per l’epoca su roccia marcissima, infatti i primi ripetitori reputarono quella salita comel’impresa di un pazzo o di un irresponsabile.
Il grande Reinhold Messner che prese in considerazione l’idea di una salita solitaria, disse che sarebbe occorso un coraggio straordinario per un impresa del genere.
Una delle scalate che lo faranno conoscere, ma non subito, fu la parete Sud della Marmolada, quando Ettore Castiglioni renderà onore alle sue capacità.
Un’altra scalata semisconosciuta, ed è questa su cui si basa l’articolo è la parete Nord della Stevia.
Dico semisconosciuta in quanto La Stevia non è una grande montagna, neppure paragonabile alla nordest del Civetta o alle cime di Lavaredo, il suo dislivello è limitato.
E’ più simile a una cima del Brianconais o a una falesia d’alta quota, eppure è su questa parete che forse è nato il settimo grado.
Occorre tener presente che all’epoca il grado massimo era il sesto superiore e che era considerato un limite umano invalicabile.
La via in se stessa non è particolarmente bella, ne lunga (circa sei tiri) ed è piuttosto friabile; per cui questo articolo non vuole essere una monografia o un invito a ripercorrerla.
Eppure sono le difficoltà tecniche rapportate al momento storico in cui è stata realizzata a renderla interessantissima.
Abbiamo ripetuto questa parete nel luglio del 1989 durante una giornata tersa e molto fredda, ciò che fa un po’ “impressione” è che inizia da un cengione a circa 100 – 150 metri da terra.
Il primo tiro non è difficile, ma la sosta da più una sicurezza psicologica che reale, segue un traverso su tegole rovesciate e friabili, secondo me valutabile sesto superiore.
Il terzo tiro è rappresentato da una fessura ad incastro abbastanza bella, (se rapportata al resto della via) ai miei tempi facevano bella vista alcuni vecchi cunei marci, per cui occorre proteggersi con nuts ed eccentrici.
Il quarto tiro invece è quello famoso, rappresentato da un diedro orientato verso destra, umido e sporco dalle deiezioni dei corvi. Va superato leggermente a destra (sesto sup.), dopo di chè vi è il famoso passaggio rappresentato da un tettuccio valutabile settimo-settimo inferiore oppure 6a+.
Al di sopra vi è un punto di riposo rappresentato da un fessurone camino, si arriva ad una cengia e si prosegue per altri duetiri di corda di quarto e quinto grado su roccia sempre scadente e privi di ogni interesse.
Come già detto precedentemente non si tratta di una monografia o di un invito a ripetere la via, in quanto la roccia è di qualità scadente e richiede comunque un po’ di pelo sullo stomaco ed esperienza di arrampicata dolomitica, la sua importanza è di interesse prevalentemente storico nei confronti di un’epoca delle più straordinarie di sempre.
(per concessione www.arrampicate.it)